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Tra familiari conviventi (coniugi, genitori, figli), ma anche tra parenti stretti (fratelli, sorelle, nonni, nipoti, ecc.) è frequente il ricorso a prestiti infruttiferi per le necessità più importanti come, per esempio, l’acquisto di un’autovettura o di un fabbricato da destinare ad abitazione.
Fino ad oggi, in considerazione del rapporto in essere tra le parti, questi prestiti non venivano in alcun modo formalizzati rappresentando più che altro “impegni morali”.
Oggi però, i nuovi strumenti utilizzati dall’Amministrazione Finanziaria per la ricerca di redditi imponibili non dichiarati (uno su tutti, il REDDITOMETRO) non consentono più di affrontare questi eventi senza un riscontro anche formale (vale la pena ricordare che nel processo tributario non sono ammesse le testimonianze, e tantomeno quelle dei familiari).
E’ quindi di fondamentale importanza poter documentare l’origine delle somme confluite nella disponibilità del soggetto che poi ha sostenuto la spesa. Una precisa e provata individuazione del tipo di rapporto acceso (prestito infruttifero) consente inoltre di escludere che l’elargizione possa essere interpretata come una donazione o che il concedente possa maturare interessi attivi (imponibili IRPEF).
Nel caso di acquisto di un immobile, ad esempio, il soggetto che fornisce il denaro necessario potrà intervenire in atto per dichiarare di aver provveduto direttamente al pagamento, in tutto od in parte, del prezzo di acquisto.
In alternativa, gli interessati possono ricorrere ad una scrittura privata, firmata da tutti i soggetti coinvolti, a cui dovrà essere attribuita “data certa” che può essere ottenuta con varie modalità:
Sia nella fase di erogazione della somma di denaro che in quella del successivo rimborso, si dovrà prestare particolare attenzione al rispetto delle norme antiriciclaggio e in particolare al rispetto dei limiti previsti per l`utilizzo di contanti. Il consiglio è quello di ricorrere sempre e comunque a modalità di trasferimento fondi “tracciate” (bonifico o assegni non trasferibili).
Il concetto di abitabilità degli edifici viene introdotto nel nostro ordinamento con l’art. 221, primo comma, del regio decreto 27 luglio 1934, n° 1265 (testo unico delle leggi sanitarie) ed ha subito negli anni numerose modifiche, specialmente per quanto attiene al percorso per accertarla ed all’individuazione del documento che la dimostri.
Nel nostro ordinamento non esiste una norma che vieta di alienare un fabbricato in mancanza dei requisiti di agibilità, e pertanto neppure una norma che vieta di alienare un fabbricato in mancanza del certificato di agibilità ovvero, oggi, in mancanza della presentazione della segnalazione certificata di agibilità.
Sicuramente l’atto con il quale viene alienato un fabbricato privo di agibilità non è nullo ed il problema riguarda solo il rapporto tra le parti, che devono essere correttamente informate su questo aspetto e poi raggiungere un accordo.
Quando viene venduto un fabbricato il venditore deve normalmente garantire la presenza dei requisiti di agibilità, perché se questi non sono presenti l’edificio è privo di una qualità essenziale per l’uso a cui è destinato. L’unica eccezione si può avere quando l’acquirente dichiara espressamente di essere consapevole della mancanza dei requisiti di agibilità, e di voler acquistare ugualmente il fabbricato.
Se è presente la certificazione di agibilità, il venditore che ne sia in possesso deve senz’altro consegnarla all’acquirente, ma per gli edifici di vecchia costruzione, realizzati prima dell’entrata in vigore del testo unico sull’edilizia, può accadere che non esista alcuna documentazione, o non sia possibile reperirla, neppure mediante accesso agli atti del Comune; in tal caso il venditore non potrà fare altro che garantire la presenza dei requisiti di agibilità, assumendosene la responsabilità nei confronti dell’acquirente.
In ogni caso la legge richiede la certificazione dell’agibilità soltanto al termine della costruzione o degli interventi sugli edifici esistenti che possano influire sulle condizioni di agibilità. Non è previsto un adeguamento degli edifici alle normative sopravvenute, neppure in caso di alienazione, a meno che sia eseguito un intervento che incida sulle condizioni di agibilità.
Come detto, l’assenza dei requisiti di agibilità (o della certificazione di agibilità) non comporta la nullità dell’atto di compravendita, ma per evitare future controversie tra le parti è opportuno che dall’atto di compravendita (o, meglio ancora, sin dal contratto preliminare) risulti espressamente la situazione dell’immobile in relazione all’agibilità.